-Avv. Carlo Geremia

Culture a confronto

Shangai, 2011

Un avvocato veneto alle dipendenze di una compagnia cinese.
Carlo Geremia, arrivato per un periodo di studio, si è ormai perfettamente integrato.
Parla la lingua, padroneggia i complessi principi contabili e normativi del paese e sa destreggiarsi nelle regole non scritte che governano le relazioni di lavoro

 

Arriva da Portogruaro, 25mila abitanti a metà strada tra Venezia e Trieste, è sposato con un architetto di Taiwan, non ha figli, ma la Nutella a casa sua, nel centro di Shanghai, non manca mai, anche se costa parecchio: grosso modo 9 euro per un vasetto di 750 grammi.

Carlo Geremia, 43 anni, avvocato appassionato di Cina, dal 2001 a Pechino e poi nella capitale economica del paese, ammette la sua debolezza di gola: «Amo i dolci italiani, quando torno a casa faccio sempre la scorta di torte, panettoni e cioccolatini. La Nutella, invece, la trovo qui al supermercato, è molto apprezzata anche dai cinesi». L’amore per la Cina è nato piuttosto casualmente, il suo percorso formativo andava in tutt’altra direzione: «Nel 1994 mi sono laureato in legge. Poi ho lavorato per qualche anno nello studio di mio padre, a Portogruaro. Attività interessante, ma sentivo la necessità di un’esperienza all’estero».

Geremia fa un master in diritto internazionale alla London School of Economics, poi si imbatte in un programma Ue che finanzia training di dieci mesi in Cina, un mix tra studio e lavoro in aziende locali. «Sono arrivato nel 2001 e subito entrato in un grande studio legale di partner inglesi, un’esperienza molto interessante. Formativa».

Dopo un rientro forzato in Italia nel 2003 causa allarme Sars, ecco il ritorno definitivo a Pechino con un preciso obiettivo: imparare il cinese. Non basta l’inglese per il business? «È indispensabile, ma non sufficiente. Conoscere il cinese ti permette di entrare in contatto diretto con la gente, di conoscere meglio la storia, la cultura, il modo di pensare. È una lingua complessa, ora la parlo e la leggo abbastanza, quanto basta per evitare di vivere in quella torre d’avorio, un po’ colonialista, che isola dirigenti e tecnici europei».

Ricco di esperienza legale e piuttosto fluente nella lingua, Geremia a questo punto si trasferisce a Shanghai, «una città più difficile, più competitiva di Pechino, molto orientata al business, quindi ricca di opportunità professionali, ma senza storia». Poco più di tre anni nello studio legale, poi la grande crisi globale di fine 2008 colpisce anche la Cina. I faldoni delle pratiche si assottigliano. Ma fortunatamente a Shanghai cambiare lavoro non è difficile. «Dal 2009 mi sono inserito, bene direi, in una compagnia cinese che assiste le aziende straniere intenzionate a insediarsi qui. Un lavoro molto interessante e utile. La Cina è un universo, non ci si può improvvisare, eventuali errori iniziali si pagano pesantemente».

La società è stata fondata da due dirigenti del governo locale di Shanghai, profondi conoscitori dei meccanismi burocratico-amministrativi. I dipendenti, rapidamente aumentati, ora sono una cinquantina: «Assistiamo un migliaio di imprese internazionali, io mi occupo principalmente degli affari legali per fondare una società di diritto cinese o di modifiche statutarie, i miei colleghi offrono assistenza per amministrazione e servizi contabili, in particolare per rendere omogenei i bilanci. E consolidare gli utili delle filiali cinesi alla capogruppo».

 

Principi contabili diversi? Geremia spiega: «In Cina si applica il principio di cassa, con costi e ricavi che sono imputati al periodo nel quale sono stati sostenuti. In Italia (e in altri paesi occidentali) si utilizza il principio di competenza: costi e ricavi vengono trascritti quando entrate e uscite si verificano realmente». Un investimento pluriennale, quindi, ha un diverso trattamento nel bilancio cinese e in quello italiano. «Dobbiamo “convertire” (facendo delle rettifiche) la contabilità cinese perché possa essere letta dalla casa madre italiana o per fare il bilancio consolidato del gruppo».

«Siamo in un paese molto amministrativizzato – sintetizza l’avvocato veneto – con un sistema legislativo decisamente complesso. E invasivo. A Pechino il governo o l’assemblea del popolo emanano leggi con principi generali che poi devono essere applicati a livello locale con misure più o meno conformi al dettato centrale. Le differenze sono grandi: a Shanghai le misure economiche sono molto più business oriented, nonostante tutte le tortuosità del sistema politico-economico. In altre regioni i vincoli spesso sono maggiori». Per esempio? «A Hong Kong basta meno di una settimana per avviare una società, qui a Shanghai ci vogliono almeno un paio di mesi per arrivare a una business license e un altro mese per completare l’iter. E chi vuole aprire un sito produttivo deve rassegnarsi a passaggi ancora più lunghi. In altre province i tempi si dilatano ulteriormente, con differenze anche di diversi mesi e regolamenti locali che spesso si contraddicono. Pesa, in queste zone, anche l’inesperienza di gestire un sistema economico sempre più articolato e complesso. Qui non c’è un Codice civile strutturato come il nostro. Il sistema legale è ancora in costruzione e ci vorrà molto tempo per arrivare a un minimo di organicità.

Il lavoro certo non manca all’avvocato Geremia («ma mia moglie è ancora più occupata, un grattacielo dopo l’altro, con ritmi impensabili per una città occidentale»), affascinato dal modo in cui i cinesi adattano le legislazioni straniere ai propri bisogni. Quindi non copiano solo i rubinetti o le griffe del made in Italy?

«AL CAPO NON CI SI RIVOLGE MAI USANDO IL TU – SPIEGA GEREMIA – NÉ LO SI PUÒ CONTRADDIRE.

IN QUESTO AMBIENTE GERARCHICO, CHE RICALCA UNA STRUTTURA FAMILIARE, IL DISSENSO PUÒ ESSERE ESPRESSO SOLO IN PRIVATO, ATTRAVERSO DOMANDE RETORICHE E GIRI DI PAROLE»

«Copiare, in questo caso, non è la parola esatta. Si ispirano, studiano i modelli legislativi in giro per il mondo e adottano quello che ritengono più adeguato al sistema cinese. Lo ammettono loro stessi che spesso non sono in grado di affrontare tematiche avanzate. Per esempio hanno studiato a lungo la legislazione antitrust degli Stati Uniti e quella della Ue, adottando alla fine il modello europeo, meno market oriented, con maggiori tutele per i cittadini».

Come si lavora in una company cinese? Modello gerarchico o organizzazione manageriale “orizzontale”? Geremia non ha dubbi: «È un rapporto gerarchico, formalmente molto marcato. Al capo non ci si rivolge con il tu (m) ma con il lei (ni). Non va mai contraddetto in presenza di colleghi o altre persone. In privato è meglio dissentire in modo velato, con domande retoriche, giri di parole, espressioni di preoccupazione o perplessità».

La conoscenza della lingua è fondamentale, permette di evitare spiacevoli inciampi: «Un parere discorde o una critica richiede una struttura di frase molto precisa: “sono pienamente d’accordo con quanto da lei detto, vorrei però rilevare che…”».

Lingua antica, il cinese, adattata per il business: «I rapporti di gerarchia rispecchiano i rapporti familiari: per esempio la collega di lavoro più anziana si chiama jie (sorella maggiore), il giovane collega xiao (piccolo). Per esempio xiao Wang è il nostro collega di studio fresco di laurea. Il capo team è lao da (vecchio + grande, anticamente l’appellativo del primogenito)». Ci vuole tempo per imparare il bon ton manageriale in salsa confuciana: «Al capo ci si rivolge con il nin, direttamente con il cognome, più zong, che si può tradurre con general manager, responsabile. Il capo dell’ufficio legale della nostra compagnia, mio superiore diretto, è Cheng zong. Quando invece si parla del capo nei corridoi, magari davanti alla macchinetta del caffè, lo si può anche definire laoban, il boss».

Dieci anni di Cina sono sufficienti, è l’ora di rientrare in Italia? «No, qui a Shanghai mi trovo bene, anche se a Portogruaro torno regolarmente e sto cercando di insegnare un po’ di italiano a mia moglie». Qualche consiglio, allora, per giovani che vogliano capire il mondo che verrà guardandolo attraverso la capitale economica cinese: «Shanghai non va vissuta come un’esperienza di qualche mese a Londra per perfezionare l’inglese, magari lavorando  come cameriere, non foss’altro che per la distanza e la necessità di ottenere il visto. Questa città offre grandi opportunità professionali, ma non a tutti.

C’è grande fame di professionisti e di specialisti in , materie tecniche, dubito che un laureato in marketing o pubbliche relazioni possa trovare un adeguato lavoro.

Due consigli:

primo, chi vuole la Cina deve preventivare due anni per studiare il cinese, indispensabile per poter operare in modo adeguato. Due anni è il tempo minimo, ma sufficiente: poi bisogna allenarsi continuamente.

Secondo, il sistema cinese i si basa molto sulle relazioni umane, il lavoro si trova sul passaparola, parlare la lingua locale permette di ampliare il network di conoscenze e, di conseguenza, di opportunità. E noi italiani siamo favoriti dal nostro carattere espansivo e aperto. In sintesi: la Cina è un investimento sicuro, ma bisogna lavorare per il medio periodo, non per qualche mesetto. Non è un paese mordi e fuggi».

 

Testo di Nino Ciravegna foto di Qilai Shen
(immagini realizzate per ventiquattro a Shangai il 1 marzo 2011).

VENTIQUATRO Magazin

N. 4 25 Marzo 2011

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