Appassionati fino all’impudenza, Anna e Aleksej vivranno pienamente il loro amore, sfidando regole, convenzioni e religione, perdendo figli, diritti e prestigio. Invisa alla sua classe, al marito e a Dio, Anna riparerà in campagna e nell’abbraccio sempre aperto del suo amante, da cui avrà presto una bambina. Impossibilitata a sposare Aleksej e costretta ad affidare la sua piccola a Karenin, perché venga ‘riconosciuta’ e gli venga garantito un futuro, Anna infila l’ultimo treno e il freddo polare della morte. Non è nuovo Joe Wright agli adattamenti ‘in costume’ (Orgoglio e pregiudizio, Espiazione) ma mai come questa volta si è dimostrato sicuro del fatto suo e in pieno possesso dei propri mezzi, realizzando una versione di Anna Karenina che ‘fila’ letteralmente come un treno nella notte e alla maniera di un marionettista attraverso accorgimenti invisibili. Perché il suo film è calato in un teatro e percorso da un treno che apre e chiude una geometria delle passioni, a cui invano tentano di opporsi gli amanti di Tolstoj, esplosi nel mondo claustrofobico della Russia imperiale. L’Anna Karenina di Wright, al modo di Max Ophüls, fa danzare lo sguardo con la macchina da presa e ha il movimento di un valzer turbinante su un uomo e una donna che ostentano la reciproca rinuncia soltanto per sfidarla e alla fine vincerne la resistenza. Nell’età poco innocente e assolutista degli Zar, la tensione sentimentale che allaccia Anna e Vronsky interpreta la tensione sociale delle classi indigenti, che ‘abbigliano’ gli aristocratici, aprono e chiudono le porte dei quadri scenografici messi in scena e in cui si mettono in scena. Regista e sceneggiatore (lo shakespeariano Tom Stoppard) intrattengono lo spettatore informandolo assieme sulla società, le mode e i costumi dell’epoca di riferimento in cui si muovono, esprimono il loro desiderio e una vita mancata gli amanti infelici di Keira Knightley e Aaron Johnson. Rivitalizzato con risorse tecnico-linguistiche il romanzo di Tolstoj ritorna sullo schermo sfidando le trasposizioni illustrative con Greta Garbo, due volte Anna Karenina, prima ‘muta’ e poi sonora. La Knightley, sempre leziosa e impersonale, è nobilitata da un cinema che rifà il teatro che rifà la vita dentro uno studio e una danza. Danza che avvolge e coinvolge, diventando testimonianza della vita sociale, di esigenza poetica di racconto e di preludio all’azione. Accompagna Keira Knightley nel giro di valzer e di vita, il biondissimo e fatale conte di Aaron Johnson, portatore di eros e thanatos. Dietro alle quinte la trattiene e custodisce come un bene il marito imploso di Jude Law, che sperimenta dolente l’inarrestabile divenire morte della vita. Come inevitabile conclusione, come si addice alla forma tragica. Le passioni e le pulsioni vitali nel film di Wright finiscono così per coincidere con la distruzione indicando un destino senza possibilità di ritorno, gestito soltanto dall’immediatezza e dalla furia del sentimento. In una rappresentazione che alterna l’orizzontalità delle scene con la verticalizzazione delle scenografie si rinnova la tragedia della condizione umana di Anna Karenina, l’insostenibilità di un amour fou che distrugge e autodistrugge proprio mentre assapora la perfetta aderenza dell’amante amato.(fonte www.mymovies.it)
PINOCCHIO, Italia, 2012, 1h 27m, Animazione, Regia Enzo D’Alò
Cast Gabriele Caprio, Mino Caprio, Maurizio Micheli, Rocco Papaleo, Paolo Ruffini
Trama: Geppetto è un bambino dotato di una vivace fantasia. Quando diverrà un uomo non perderà la capacità di guardare oltre le apparenze e scoprirà nel ciocco di legno che ha davanti il burattino da intagliare a cui darà nome Pinocchio. Inizia così il film che D’Alò aveva in mente sin dal 2000 e del quale non riusciva a trovare la chiave di lettura. Diciamo subito che l’avere alle spalle sul piano dell’animazione l’edizione disneyana e su un versante cinematografico la versione di Comencini e quella di Benigni un suo peso lo ha di certo avuto. D’Alò dichiara che la morte di suo padre gli ha fornito l’occasione per ripensare al loro rapporto e per guardare da un punto di vista innovativo al personaggio di Geppetto. A film completato si può dire che l’operazione sia riuscita e che l’originalità sul piano narrativo risieda proprio nel mostrare come Geppetto non abbia mai dimenticato di essere stato un bambino, conservando intatto uno sguardo carico di fantasia. A questo si aggiunge una rilettura della Fata Turchina che non viene vista come un sostituto della figura materna (come in Comencini) ma si trasforma in un’amica quasi coetanea di Pinocchio della quale il burattino in fondo si innamora. D’Alò è un regista di animazione che da sempre è stato attento alla grafica delle proprie opere offrendo a ogni storia messa in scena il giusto contesto figurativo. La collaborazione con Lorenzo Mattotti dà in questa occasione i suoi frutti offrendo all’adulto che accompagni un bambino in sala il piacere di un segno originale che non dimentica però i richiami alla storia dell’arte e che non ha paura di cambiare stile e tecniche quando deve mettere in scena i sogni. Lucio Dalla ha poi offerto la propria vena eclettica costruendo una colonna sonora contaminata da stili diversi ma non contrastanti che il film riconduce ad unità. Il tutto con la leggerezza che ha sempre contraddistinto il lavoro di D’Alò, un regista che non rinuncia a cercare la morale nella favola senza però cadere mai nel moralismo. (fonte www.mymovies.it)